Mentre il papa si angustia della guerra tra cristiani che sta consumandosi nelle
regioni russofone dell’Ucraina, la guerra nei territori tra Siria ed Iraq si va
estendendo sempre più profondamente dentro il mondo islamico. La fiera delle
atrocità nel Medio Oriente continua a mettere in mostra i suoi orrori, con l’ultimo
video del pilota giordano arso vivo, dopo esser costretto a guardare l’altro orrore
dei bombardamenti provocati dalla coalizione di cui faceva parte. Poco
interessano le polemiche giornalistiche su incongruenze di questo ed altri
video; tra orrore reale ed orrore esibito, nella riproduzione e moltiplicazione
del messaggio, nella rete e sui media, è
comunque l’esibizione a provocare reazioni. Come quelle della Giordania e di
altri paesi che pensavano di usare l’Isis (e le altre forze da essa scalzate
nel conflitto siriano) per i loro confliggenti interessi. Dopo le immagini del
rogo, tra dispute teologiche e minacce apocalittiche, la legge del taglione
variamente interpretata ha continuato a
macinare, con l’impiccagione dei militanti islamici detenuti nelle carceri
giordane, tra cui la donna di cui lo Stato Islamico chiedeva la liberazione e
con il bombardamento indiscriminato di Mosul, città conquistata soprattutto per
via di dinamiche interne di una resistenza sunnita che non si è mai fermata
dall’invasione americana del 2003. Quanto sta accadendo da alcuni anni tra Iraq
e Siria, con l’avvento del Califfato che sembra aver assorbito anche le
componenti ex baathiste nazionaliste irachene è in parte frutto avvelenato di quella improvvida
“missione compiuta”. La linea recente degli strateghi dell’IS sembra puntare
innanzitutto a spaccare il mondo islamico sunnita, in particolare le società
dei paesi arabi più strettamente alleati dell’Occidente, ponendo anche molta
cura nella comunicazione verso i musulmani europei. Al di là delle
propagandistiche sparate su Roma o l’estensione del califfato alla Spagna
sembra che la posta sia l’egemonia nell’Islam sunnita (prima ancora della lotta
contro lo Sciismo) ed il superamento degli stati nazionali ex-coloniali con la
creazione di una omogenea entità sunnita, di cui lo Stato Islamico è embrione.
Questo da ragione della prudenza con la quale il debole governo iracheno
procede verso un crinale di guerra settaria e di intervento massiccio dell’Iran
che rischia di squagliarlo del tutto. E spiega in parte l’atteggiamento
quantomeno contraddittorio dei paesi confinanti le aree di guerra che ci hanno
soffiato sopra per ragioni opposte. Dalla Turchia vicina al Quatar e sponsor
delle organizzazioni anti Assad sodali ai fratelli musulmani continuano ad
affluire combattenti, anche occidentali pro-Isis che, evidentemente, non vengono troppo controllati; gli va bene mantenere uno stallo in cui il
nemico takfirita, continua a tenere il regime siriano sulla graticola mentre
gli combatte i più immediati nemici curdi. Dall’Arabia Saudita vengono prodigi
di doppiezza: mentre i suoi piloti, in ottemperanza agli obblighi della coalizione,
bombardano svogliatamente qualche postazione irrilevante continuano ad arrivare
appoggi e finanziamenti ai ribelli siriani come agli ex nemici baathisti di Al
Douri. Il Libano sta estendendo la sua perenne condizione di guerra civile,aperta
o potenziale, anche alla Siria, con l’intervento diretto delle milizie Hezbollah
e l’affluenza di volontari sunniti nel campo opposto. Ora, la Giordania,
approfittando dell’indignazione popolare interna, ha minacciato l’intervento di
terra contro lo Stato Islamico, pur non avendone credibili potenzialità; questa
uscita potrebbe preludere ad una accelerazione di partner ben più attrezzati,
trascinando anche la coalizione occidentale sul terreno. L’escalation degli
ultimi tempi sembra indicare una ”parallela” convergenza di interessi tra i
sostenitori dell’opzione del califfato e gli interventisti in ambito
occidentale. Gli strateghi dell’Is potrebbero credere che una guerra aperta, di
eserciti “crociati” invasori, meglio se in combutta con l’odiato persiano
sciita, consegnerebbe ampie masse alla propria jihad e farebbe esplodere gli
stati filo-occidentali. I governi occidentali ci vedrebbero un utile sbocco
alla crisi, anche in funzione di polarizzazione dei conflitti interni in
traiettorie elusive la lotta di classe. I regimi che cercano di sfruttare il
conflitto per i propri interessi d’area, nella convinzione di poter strumentalizzare
un’opzione politica considerata utopistica e alfine non realizzabile, sono
quelli ché più rischierebbero di perderci. O forze iniziano a sentire il fiato
sul collo degli utopisti e si convinceranno ad accelerare il tentativo di
annientarli come dichiara adesso il regime hascemita. Ribadiamo che in questa
fase ci sembra fuori luogo schierarsi in
base a concezioni antiimperialiste, difficili da forzare entro le coordinate di
una guerra come questa, ferma restando ogni opposizione all’intervento
militare occidentale e quindi del nostro
paese. Né ci sentiamo di esaltare quanti, pur difendendo legittimamente i loro
territori ed aspirando ad un proprio stato, si prestano a fare da fanteria di
terra all’aviazione alleata. La crescita dell’influenza russa va considerata
positivamente per contrastare l’egemonia americana, ma sono fuori luogo le
concezioni dell’asse russo-iraniano come baluardo antiimperialista: si tratta
di un conflitto per spartirsi le aree di influenza. E’ auspicabile per quanti
pensano di rilanciare un movimento comunista, anche da noi e nei paesi
sottoposti alle servitù militari ed ai vincoli di alleanza Usa-Nato, che gli
Stati Uniti perdano la loro presa egemonica sul medio Oriente e non solo, ma
saranno soprattutto le dinamiche interne alla lotta di classe nei vari paesi a determinare
lo spostamento dei rapporti di forza che attualizzerà il nuovo comunismo, non
certo l’appiattimento sulla politica estera russa di alcuni partitini o micro-comunità
sedicenti comuniste. Che Assad resista e Russia ed Iran possano contendere il
piatto agli Usa può tornar utile ma non decisivo.
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